Lo screenshot è prova in giudizio, permangono dubbi
Non sento di condividere il ragionamento della Suprema Corte in ordine alla legittimità in giudizio di uno screenshot in quanto seppur “non è imposto alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività, che consiste nella realizzazione di una fotografia e che si caratterizza soltanto per il suo oggetto, costituito appunto da uno schermo” sul quale sia visibile un testo o un’immagine “non essendovi alcuna differenza tra una tale fotografia e quella di qualsiasi altro oggetto” ciò non attesta che l’informazione fotografata sia veritiera.
Per i più attenti ricordo che le informazioni che si manifestano sul nostro monitor non è detto che siano assolutamente vere, ossia che non abbiamo subito una manipolazione tecnologica a livello software.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – 24 giugno 2022 N. 24600
SINTESI DEI FATTI
- La Corte di appello di Bologna, con sentenza emessa il 17 dicembre 2020, riformava la sentenza del Tribunale di Forlì del 20 marzo 2019, confermando la responsabilità penale di F.G., M.S. e S.S. in ordine al delitto di diffamazione, escludeva la sussistenza della circostanza aggravante dell’art. 595, comma 3, c.p., riducendo e modificando l’originaria pena detentiva in quella della multa di Euro 900,00 per F. e M. e di Euro 600,00 per S..
- In particolare a F.G., M.S. e S.S. i Giudici di merito attribuivano la condotta di diffamazione in danno di M.K. e G.A., consumata attraverso il social network Facebook (rectius: Messenger), a mezzo di una chat che era stata costituita dalla M. e che oltre a F. e S. vedeva quali utenti anche C., B. e M., tutte altre atlete della medesima disciplina del body building, essendo la G. preparatrice atletica e giudice di gara nella competizione che di lì a poco si sarebbe svolta con la partecipazione di alcune delle utenti della chat, mentre M. era consigliere delegato e membro del consiglio nazionale della federazione sportiva di riferimento. Le accuse di parzialità e incapacità rivolte alla G. – accusata di conflitto di interessi e di favorire quale giudice le atlete delle quali curava la preparazione – nonchè nei confronti di M. – per aver piegato a interessi personali le scelte anche economiche della federazione – nel dettaglio meglio riportate nelle contestazioni contenute nelle sentenze di merito, costituivano espressioni e valutazioni giudicati grandemente lesivi della reputazione, del prestigio e della credibilità delle persone offese e venivano di fatto comunicate anche alle tre atlete, che partecipavano della chat e vi leggevano le espressioni diffamatorie. 2. Il ricorso per cassazione è proposto nell’interesse di M.S. e consta di un unico motivo, seppur composto di più profili di censura, enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p..
- L’unico motivo di ricorso deduce la mancanza e la contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). 3.1. In particolare la ricorrente censura la sentenza della Corte di Bologna in quanto non avrebbe tenuto conto della inutilizzabilità delle conversazioni in chat riprodotte dagli screenshot e diffuse da C.C., che insieme a B. e M. partecipavano della chat del social Messenger, pur senza aver preso parte alle conversazioni fra la ricorrente, F. e S.. Non sarebbe stata conseguentemente esclusa dalla sentenza impugnata, a seguito della inutilizzabilità, l’attribuibilità delle conversazioni alla M.. 3.2. Ulteriore censura afferisce alla omessa valutazione da parte della Corte di merito della natura non denigratoria delle espressioni della M. e dell’esercizio del diritto di critica. 3.3. Infine il ricorso denuncia l’omessa motivazione quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo, avendo la M. per altro richiesto alle sue interlocutrici riservatezza, dunque volendo evitare la diffusione delle conversazioni.
- Il pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, requisitoria e conclusioni, con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, quanto al primo motivo perchè inammissibile perchè l’attribuzione delle conversazioni è avvenuto grazie al testimoniale e per altro le chat sono da ritenersi pienamente utilizzabili; quanto al difetto di carica diffamatoria delle espressioni, per genericità del motivo; quanto al terzo motivo perchè richiede una valutazione nel merito ed è comunque infondata perchè la richiesta di riservatezza palesa l’intensità del dolo.
DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è inammissibile per aspecificità e perchè manifestamente infondato.
Va premesso in primo luogo che la deduzione della inutilizzabilità degli screenshot delle conversazioni sulla chat del social ‘Messenger’ è completamente priva di riferimento all’impatto che la stessa sanzione probatoria avrebbe sull’impianto argomentativo della sentenza impugnata. A riguardo va evidenziato come nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti e ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303). Nel caso in esame, come osserva la Procura generale, l’attribuzione alla M. delle espressioni diffamatorie avviene oltre che attraverso gli screenshot, anche con l’escussione delle atlete C. e B., nonchè grazie alla nota della stessa M., che per difendersi nell’ambito del procedimento disciplinare sportivo non nega la paternità delle espressioni, oltre che, infine, per la confessione della coimputata S. (foll. 9 e 10 della sentenza impugnata). Pertanto il motivo, è aspecifico.
Ad ogni buon conto la censura è anche manifestamente infondata.
4.1. Infatti sono da ritenersi pienamente utilizzabili, in quanto legittima ne è l’acquisizione come documento, i messaggi sms fotografati dallo schermo di un telefono cellulare sul quale gli stessi sono leggibili in quanto “non è imposto alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività, che consiste nella realizzazione di una fotografia e che si caratterizza soltanto per il suo oggetto, costituito appunto da uno schermo” sul quale sia visibile un testo o un’immagine “non essendovi alcuna differenza tra una tale fotografia e quella di qualsiasi altro oggetto” (Sez. 3, n. 8332 del 06/11/2019, dep. 2020, R., Rv. 278635). Come pure la Corte di cassazione, richiamando il precedente principio, ha ritenuto pienamente utilizzabile una pagina di un social network a mezzo fotografia istantanea dello schermo (screenshot) di un dispositivo elettronico sul quale la stessa è visibile (Sez. 5, n. 12062 del 05/02/2021, Di Calogero, Rv. 2807589).
4.2. Nè tanto meno l’inutilizzabilità può derivare dalla circostanza che il contenuto della conversazione, verbale o scritta che sia, sia resa disponibile quale mezzo di prova, in forma documentale a mezzo di screenshot, da uno dei conversanti senza autorizzazione o all’insaputa degli altri conversanti.
4.3. In tal senso deve rilevarsi come non sia riconducibile alla nozione di intercettazione la registrazione fonografica di un colloquio svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, operata, sebbene clandestinamente, da un soggetto che ne sia partecipe o, comunque, sia ammesso ad assistervi, costituendo, invece, una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova (Sez. 1, n. 6339 del 22/01/2013, Pagliaro, Rv. 254814 – 01).
Ciò in quanto, come affermano le Sezioni Unite, le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e segg. c.p.p. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. Ne consegue che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio, Rv. 225465).
4.4. Il principio di diritto ora richiamato, che esclude che si verta in tema di intercettazioni allorchè le conversazioni, o meglio le comunicazioni verbali, come quelle relative alle chat, siano nella disponibilità dei soggetti legittimati a parteciparvi e dunque pienamente utilizzabili, trova applicazione anche nel caso in esame.
4.5. Pertanto rileva il Collegio come non costituisca intercettazione, ai sensi degli artt. 266 e segg. c.p.p., la documentazione delle comunicazioni svoltesi su una chat estratte, quantunque senza l’autorizzazione degli altri utenti, a mezzo screenshot da parte di uno dei soggetti che sia ammesso ad assistervi, dunque legittimato a parteciparvi attivamente o anche ad assistere passivamente, costituendo forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore o l’autorità giudiziaria può disporre legittimamente, a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p..
4.6. Pertanto il motivo è inammissibile.
- Il secondo e il terzo profilo di censura, quanto al tenore non diffamatorio delle espressioni, nonchè all’omessa motivazione quanto al dolo, sono inammissibili perchè generici.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
La sentenza analizza le frasi attribuite alla M. (pagg. 10 e 11), ne indica la carica diffamatoria nei confronti delle persone offese, in quanto rivolte alle altre atlete presenti in chat, tre delle quali, come anticipato, non partecipano ma assistono alla conversazione, tanto che sarà una di queste a palesare il contenuto della conversazione; come pure la prova del dolo viene riferita dalla Corte territoriale proprio alla presenza delle tre atlete solo partecipi della chat, non conversanti ma spettatrici, che in essa furono cooptate e alle quali venivano sottoposti giudizi lesivi dell’onore (pagg. 11 e 12).
In sostanza il motivo di ricorso non è specifico, risulta carente della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849), difettando di una critica puntuale al provvedimento, non prendendo in considerazione, per confutarle in fatto ovvero in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (Sez. 6 n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521).
Anche il secondo e terzo motivo sono quindi inammissibili.
- Dall’inammissibilità del ricorso discende la condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 aprile 2022.
Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2022